Città di Firenze
Home > Webzine > In prima nazionale a Scandicci la ''Medea'' in arbëresh di Francesco Suriano
venerdì 29 marzo 2024

In prima nazionale a Scandicci la ''Medea'' in arbëresh di Francesco Suriano

18-01-2008

Venerdi 18 e sabato 19 gennaio in scena “Un vajtim arbëresh” tratto dalla Medea di Euripide, il nuovo spettacolo di Francesco Suriano e Nando Pace. Una prima nazionale ospitata al Teatro Studio di Scandicci, in cui il testo è interpretato in arbëreshe, la lingua delle comunità albanesi insediatesi in alcune regioni italiane in seguito all’invasione dell’Albania da parte dell’impero Ottomano. La maggiore comunità storica risiede proprio in Calabria e ha mantenuto pressoché inalterate la propria identità culturale e linguistica. Così è nata l'idea di Giancarlo Cauteruccio, direttore artistico del Teatro Studio di Scandicci, di utilizzare la lingua arbëreshe per un testo classico. Si tratta di uno spettacolo, come già "Rocco U Stortu" sempre di Suriano, dove il dialetto, la musica e il testo si fondono in una cacofonia armonica che dovrebbe consentire agli spettatori di entrare realmente nell'atmosfera per quanto distante geograficamente. Gli attori e musicisti, tutti di origine arbëreshe - l'interpretazione è affidata a Riccardo Baffa, Vicky Macrì, Francesco Mazza, Nando Pace, Lello Pagliaro, Adriana Ponte - suonano gli strumenti originali della tradizione greca, albanese e macedone come i daùli e daìr, strumenti a percussione, e buzuki e ciftelìa, strumenti a corda. Lo spettacolo, attraverso una tragedia classica modernamente allestita, coglie in diretta la realtà di tutti i giorni, gli sbarchi e le navi cariche di migranti. Si tratta, secondo l'autore, dei nuovi eroi “mortali” moderni, gli extracomunitari, i viaggiatori per necessità, pronti a tutto anche a rischiare la vita nella lotta contro gli elementi. Medea è una di loro, sbarcata sulla costa calabrese alla ricerca di una nuova terra. Medea è e resterà straniera perché vittima della “paura dell’estraneo”, straniera in terra straniera, vista come un pericolo e per vendetta alla fine lo diventa. Ancora una volta il teatro di ricerca sceglie il dialetto per descrivere la realtà deformata, ancora una volta sceglie - per fortuna - di rappresentare per lo spettatore una sorta di memoria storica, a breve.

di Damiano Usala